Una quindicina d’anni fa nessuno parlava di mobbing. Questo fenomeno esisteva già (è sempre esistito) ma non era ancora stato riconosciuto né definito propriamente.
Possiamo dire che la parola mobbing è entrata di recente nel linguaggio comune. Parlare di mobbing oggi è addirittura di moda, è un fenomeno noto a tutti, non più sconosciuto o nascosto ma, al contrario, portato sotto i riflettori della legge e dei media.
In realtà questo fenomeno è arduo da descrivere. Non è facile dire cosa sia il mobbing e riconoscere le situazioni in cui si manifesta; è talmente complesso e vario che difficilmente si riesce a formulare una definizione universale.
Il mobbing è una cosa personale.
Riportiamo la definizione e l’origine del termine mobbing, come appare da una rapida ricerca su internet:
Secondo il dizionario Merriam-Webster "mobbing" è un gerundio sostantivato inglese derivato da “mob” coniato nel 1688 dall’espressione latina “mobile vulgus” dove “mobile” significa “gentaglia” cioè “una folla grande e disordinata” soprattutto “dedita al vandalismo e alle sommosse”.
In italiano il termine “mob” si può avvicinare alla parola “plebaglia”. Per estensione il termine mobbing diventerebbe “plebagliare” nel senso di “aggregarsi e comportarsi come la plebe”.
Il mobbing, così come lo conosciamo oggi, esiste in realtà da sempre, in tutte le culture umane, in ogni ambiente sociale (non solo lavorativo) e persino nel mondo animale.
Questo fenomeno non è altro che una forma di “violenza psicologica” contro una persona (oppure un animale) messa in atto non da sconosciuti ma da soggetti con i quali “la vittima” condivide una situazione abituale, lavorativa o di convivenza.
Questa violenza psicologica prende il nome di mobbing quando è consumata nel mondo lavorativo in particolare, cioè all’interno di un gruppo di persone che condividono lo stesso ambiente di lavoro.
Per mobbing oggi s’intende un insieme di comportamenti violenti sul piano psicologico che si prolungano nel tempo a danno di un lavoratore (un collega, un superiore, un sottoposto), siano essi di emarginazione, umiliazione o vessazione.
Questa forma di violenza danneggia la dignità personale e professionale di chi la subisce e, ovviamente, anche la sua salute psicofisica. Questo fenomeno che si consuma silenziosamente negli ambienti di lavoro è dannoso anche per le aziende.
Il mobbing non è necessariamente un atto fisico (come, per esempio, un pugno o uno spintone) e nemmeno un’aggressione verbale (gridare, insultare, offendere con parole) ma si manifesta in modo immateriale e non esplicitamente verbale.
Per questo è ancora più subdolo e “vigliacco”, nel senso che non è subito riconoscibile nei vari comportamenti sociali di gruppo.
Di conseguenza il mobbing non è facile da identificare come reato – come atto illegittimo vero e proprio e come tale punibile dalla legge.
Quando avviene, il mobbing è sommerso e spesso è simile ai comportamenti leciti. È fatto di occhiate, risatine, commenti, dove il tono della voce e il significato sottinteso delle parole feriscono come armi.
L’insieme degli atteggiamenti, la mimica facciale, il linguaggio del corpo ecc. causa un graduale deterioramento della dignità vitale della vittima, senza nemmeno toccarla. Il mobbing colpisce con la comunicazione non verbale.
Una violenza terribile per chi la subisce, che potrebbe essere più grave di una violenza fisica – dalla quale si può guarire – mentre un danno psicologico è molto personale, resta radicato nell’anima, minando la dignità della persona anche a vita.
Pensiamo subito a un esempio terribile: consideriamo lo stato psicologico di una persona che è stata aggredita, derubata, violentata. Dal punto di vista fisico è probabile che si rimetta completamente, ma dal punto di vista psicologico è come averla “uccisa” per sempre.
Questa persona dopo l’aggressione non sarà più come prima. Il danno subito, anche se non visibile, rimarrà indelebile. Stessa cosa fa il mobbing.
Ancora oggi, nel luogo comune, la psicologia è considerata come una “scienza per matti”. Questa disciplina è sminuita e presa poco seriamente perché studia pensieri, emozioni, atteggiamenti, sogni; in una parola tutto quanto è umano e immateriale.
La psicologia – a differenza di una scienza pragmatica basata su riscontri materiali diretti e indiscutibili – si occupa dei meccanismi della psiche umana, ben più difficili da rilevare. Certamente è più semplice additare questa disciplina come una “scienza da svitati” da non prendere troppo sul serio.
Addirittura, nel pensiero collettivo “chi va dallo psicologo” è facilmente etichettato come una persona debole, fragile, come “uno che ha qualcosa che non va”, quando invece è l’esatto contrario:
infatti, chi si rivolge alle cure dello psicologo è consapevole della propria componente psicologica e desidera proteggerla, valorizzarla e curarla se necessario, allo stesso modo della propria componente corporea.
Tanti non si rendono conto di quanto sia importante la sfera psicologica, quanto essa ci riguardi in modo profondo. In realtà, chi nega questo aspetto di sé non è capace di confrontarsi con la propria reale persona, intesa nella sua completezza di psiche e soma, il corpo fisico.
La sofferenza patita per un malessere dell’anima può essere peggiore di una malattia fisica.
Non sempre curare il corpo è semplice, ma quando ci sono problemi psicologici le cure e le possibilità di guarigione diventano difficili e complesse.
Il mobbing esprime la sua violenza proprio contro la psiche della persona che lo subisce. Né l’aspetto psicologico né la portata di questa manifestazione collettiva sono da sottovalutare.
Se riflettiamo un istante, vediamo violenza psicologica attorno a noi tutti i giorni, in molti ambiti. Distinguiamo forme diverse di violenza psicologica:
Soffermiamoci per ora sulla forma di violenza psicologica del primo tipo, quella consumata fra due persone. Pensiamo, per esempio, alla ragazza che “fa il broncio” al fidanzato. Anche questa è violenza psicologica.
La violenza, infatti, in questo caso non si manifesta fisicamente (con uno schiaffo, uno spintone, il lancio di un vaso di fiori). Non è neppure una lite verbale né un documento scritto che spieghi tutti i punti del dissenso.
La ragazza che “mette il muso” non sta comunicando in modo esplicito – al quale si può rispondere – non compie gesti visibili o eclatanti, eppure il messaggio arriva benissimo e fa danno.
In questo caso la vittima è il fidanzato che subisce una violenza psicologica, pur semplice, tanto più importante quanto più è coinvolto nel rapporto con l’altra persona.
“Mettere il muso” significa che la voce fra i due attori si è spenta, che le informazioni solitamente trasmesse attraverso le parole cessano. È proprio questa la differenza fra comunicazione verbale e non verbale.
Vediamo come la comunicazione assuma subito una forma molto difficile da interpretare.
Dalla comunicazione verbale abituale si passa alla comunicazione non verbale, che, se giocata con malizia - come abbiamo detto - può prendere la forma della violenza psicologica vera e propria.
Quanti di noi si sono trovati in questa spiacevole situazione?
Nel nostro esempio, se il fidanzato ci tiene davvero al rapporto e all’altra persona, deve cercare di interpretare nel modo coretto i segnali e le informazioni non verbali che riceve.
Non tutti però hanno sensibilità ed esperienza sufficienti per intendere il linguaggio non verbale.
La ragazza, a sua volta, seguendo meccanismi propri del mondo femminile (che non vogliamo percorrere ora), opera una serie di violenze psicologiche sotto forma di messaggi e atteggiamenti non espliciti ma con una valenza molto forte.
Spesso questi messaggi sono difficilmente comprensibili al di fuori della coppia (per esempio riferimenti a esperienze o episodi condivisi, allusioni e giochi di parole che solo loro possono capire).
In sintesi, l’attore che compie la violenza psicologica (la fidanzata) sta allontanando l’altra persona da sé.
Il “muso” è un messaggio non verbale ben chiaro che dice:
“Mi hai deluso, non sono contenta di te, non ti avvicinare, ho deciso di punirti privandoti della mia presenza, non sono più disponibile per te, ti tolgo la mia persona”.
Il fidanzato (la vittima) cercherà a sua volta di rimediare con parole e azioni per uscire da questo stato di “abbandono” ed emarginazione per lui molto sgradevole (leggera forma di mobbing).
La ragazza, se è determinata a ferire, mirerà poi volutamente agli aspetti deboli del fidanzato – magari criticando la sua capacità di essere uomo – e tenterà di attaccarne la psiche.
Ad esempio, farà riferimento a quelle aree ritenute tipicamente “maschili”:
La violenza psicologica inizia quando il contenuto delle parole, delle azioni e di tutta la comunicazione in genere mira ripetutamente a scalfire la dignità, l’integrità e la salute psicofisica della vittima, cercando di colpire un punto debole in particolare.
Questo è solo un esempio per guardare con occhi nuovi tanti piccoli gesti e atteggiamenti quotidiani.
La violenza psicologica è attorno a noi tutti i giorni, nelle forme più diverse e con intensità variabile.
Quando questa violenza psicologica si protrae nel tempo, volutamente ed è opera di un gruppo di persone e non di un singolo, siamo di fronte a quello che oggi viene definito mobbing.
Il mobbing può verificarsi anche al di fuori del luogo di lavoro. È la violenza psicologica in genere messa in atto da un gruppo nei confronti del singolo, da cui il riferimento alla plebaglia di cui si parlava all’inizio.
Chi è più sensibile, più gentile, oppure, semplicemente, osa far sentire la propria voce fuori dal coro, è percepito come diverso e isolato.
L’aggregazione di un gruppo di dipendenti che si coalizza contro chi è diverso si manifesta sempre più di frequente ed è, appunto, il mobbing.
Non pensiamo che sia un fenomeno recente, tipico del mondo contemporaneo: il mobbing è sempre esistito.
Semplicemente, ai nostri giorni se ne parla di più perché si manifesta ovunque e con maggiore intensità.