Perdere il lavoro - Parte I

La possibilità di perdere il lavoro è una delle minacce peggiori per la serenità psicologica e personale di un lavoratore dipendente, possibilità spaventosa come l’idea di perdere la casa o il cibo.

Per capire appieno cosa rappresenti la perdita del lavoro ci riferiamo allo psicologo statunitense Abraham Maslow (1908-1970) che ideò la scala dei bisogni umani.

Secondo Maslow, l’obiettivo dell’uomo è la realizzazione di sé, raggiungibile passando attraverso vari livelli di soddisfazione del bisogno: ogni volta che l’uomo soddisfa un bisogno, progredisce a un livello superiore di soddisfazione, e così via.

Per semplificare, dopo aver soddisfatto i bisogni primari (mangiare, bere, vestire, avere un riparo sulla testa ecc…) l’uomo avverte i bisogni di sicurezza, rappresentati in primo luogo dalla casa, dall’appartenenza sociale e da un lavoro stabile.

Secondo Maslow, se l’uomo non ha raggiunto questo livello di sicurezza, non può desiderare altro, non riesce cioè ad ambire alla soddisfazione di bisogni di livello superiore, come - per esempio - l’appartenenza alla società, un buon rapporto con i familiari, un miglioramento degli obbiettivi, studiare, non sentirsi soli ecc.

 

In poche parole, l’idea di perdere il lavoro da dipendenti rappresenta la possibilità spaventosa di retrocedere al livello più basso della piramide motivazionale, superiore solo alla pura sopravvivenza.

Senza un lavoro ci sentiremmo subito privati della comprensione della società, dell’appartenenza a un gruppo, di obiettivi, di punti di riferimento comuni.

 

La sola idea di perdere il lavoro ci fa sentire “spogliati” di dignità, come se ci avessero tolto i vestiti. Quanti di noi provano disagio al solo pensiero di perdere il proprio lavoro?

  • “Povero me, non so fare nulla…”
  • “Come farò a pagare il mutuo?”
  • “Come potrò sfamare me stesso e la mia famiglia?”
  • “Che lavoro posso fare per vivere?”
  • “Chi e per che cosa sarebbe disposto a pagarmi?”
  • “Dove posso trovare i soldi?”
  • “Se perdo il lavoro, perdo tutto quello che ho!"

Ecco le preoccupazioni più comuni che passano nella mente di ognuno di noi, alla sola idea di perdere il proprio lavoro. Proviamo a considerare gli stati d’animo personali meno evidenti per chi affronta davvero la perdita di un lavoro da dipendente. 

Il dipendente: morte dell’individualità

Per prima cosa dobbiamo prendere coscienza che il dipendente comune è una persona che come individuo quasi non esiste, è poco più di un automa, un piccolo elemento nell’enorme complessità sociale di oggi.

Diciamolo: il lavoratore comune non conta nulla. Da un punto di vista individuale, il dipendente ha rinunciato al sé come persona capace di intendere e volere, di decidere e agire.

Infatti, l’enorme macchina aziendale che ha accolto il lavoratore non si accorge nemmeno se lui ci sia o meno. Proviamo, per esempio, a sostituire un dipendente con un altro: nella maggior parte dei casi per l’azienda non cambia assolutamente nulla.

Il dipendente è diventato una persona ininfluente, è un ingranaggio come tanti se consideriamo il mero utilizzo della sua intelligenza e capacità reale di fare.

Affermazioni drastiche, scioccanti? Vero, ma come non essere d’accordo? Pensiamoci solo per un attimo.

La storia di Filippo

Filippo si è laureato in economia e commercio e lavora in una filiale di una grande azienda internazionale nel campo dell’elettronica.

Subito dopo la laurea Filippo è stato assunto al back-office, termine usato comunemente per indicare “il gruppo degli schiavi” che remano nascosti dietro le quinte per mandare avanti l’attività.

Filippo ogni giorno deve controllare i prezzi dei ricambi prodotti dalla sua azienda e confrontarli con i vari fornitori e con la concorrenza.

In pratica, il suo ruolo è leggere e incrociare migliaia di codici e prezzi, non ha nemmeno un software adatto ma deve inserirli in un database su Excel che ha impostato lui.

Il suo corso di studi si è sviluppato sul management societario, con ampi approfondimenti in campo sociologico e dei comportamenti in azienda. Ha studiato con passione le strategie di movimenti di grandi capitali, fusioni fra società e azioni di joint-venture fra aziende.

La sua tesi di laurea riguardava l’acquisto di un marchio in difficoltà da parte di un gruppo più forte e articolato. La discussione della tesi è piaciuta molto. All’esame di laurea gli esaminanti gli hanno riconosciuto il massimo dei voti, oltre naturalmente ai migliori auguri e incoraggiamenti per quella che sembrava una promettente carriera.

Filippo ha una naturale capacità di riconoscere i meccanismi aziendali e le strategie di gruppo in un mercato che evolve. Spiccate attitudini sociali lo contraddistinguono fin da bambino, quando giocava a “Monopoli” con gli amici.

Filippo ha imparato bene l’inglese, ha vissuto all’estero per tre anni, parla anche un po’ di francese e non manca di curare le relazioni sociali e il proprio benessere; scia e gioca regolarmente a tennis. In una parola: il dipendente perfetto! 

In azienda

Filippo è stato assunto in azienda trovando il più sincero consenso fra i vari selezionatori dopo aver sostenuto diversi colloqui con le più alte figure manageriali, ricevendo complimenti e promesse di carriera e di crescita professionale.

Ha fin da subito un buon stipendio, gli promettono anche il cellulare e in futuro l’auto aziendale. Per averlo l’azienda paga un bel po’ di soldi, considerando tasse e contributi.

La mansione che svolge ora Filippo è poco più di un lavoro da scribacchino, nulla che un programma specifico non potrebbe fare, meglio e più velocemente. Basterebbe un buon programmatore per creare un software adatto a svolgere il lavoro di Filippo.

Filippo è frustrato, le sue capacità non sono utilizzate, il suo entusiasmo è sprecato.

Il suo capo diretto, Giuseppe, ricopre la figura di quadro – raggiunta dopo anni di presenza in azienda – e conosce bene il dirigente del reparto, che ha piena fiducia in lui.

Giuseppe ha frequentato solo le scuole dell’obbligo, non parla lingue straniere e non ha mai lavorato in altre aziende: nulla di male, ma ha poca esperienza e non condivide le idee innovative di Filippo.

Una riflessione

Vediamo chiaramente come la figura di Filippo sia totalmente sprecata, come mandare in prima linea gli uomini migliori di un esercito armati di pistole finte, per vederli cadere alle prime difficoltà, senza alcun valore aggiunto per l’azienda.

Il potenziale di Filippo è utilizzato solo al 5%. Non solo, ma eventuali proposte o miglioramenti devono essere approvate da Giuseppe, il quale non ha le conoscenze per capire.

Giuseppe, inoltre, sentendosi minacciato, boccia tutti i progetti di Filippo solo per una questione di gerarchia… Il dirigete ha piena fiducia in Giuseppe e gli lascia carta bianca, non vuole grane nel suo gruppo di lavoro. Filippo non ha scampo.

Ben presto Filippo comincia a chiedersi dove siano finite tutte le belle parole e le prospettive di crescita sbandierate dai dirigenti nei vari colloqui che ha sostenuto per l’assunzione.

 

“Ma i colloqui li ho fatti qui o da un’altra parte?” si chiede perplesso. Lo pagano anche troppo per inserire dei dati al computer tutto il santo giorno! 

 

Dove ci porta tutto questo

Quanti di voi si sono identificati nella storia di Filippo?

Ma allora, perché tutti cercano un lavoro da dipendente, è così desiderabile avere un lavoro come quello di Filippo?

È così costruttivo annullarsi completamente, non fare nulla di cui si è capaci - anzi, al contrario - passare intere giornate a veder crescere la propria frustrazione e impossibilità di agire?

 

“… Posto fisso… posto fisso…” 

chi non ha nelle orecchie queste parole?

 

Aziende che portano la produzione all’estero, dipendenti che vengono messi in cassa integrazione oppure licenziati, persone che si ammalano di mobbing: nemmeno un’analisi critica della realtà vi fa cambiare idea. Il vostro obiettivo rimane sempre il posto fisso.

Moltissimi dipendenti hanno “deposto le armi”, hanno accettato cioè il proprio lavoro come un amaro destino inevitabile, si sono annullati come persone rispetto alle loro capacità, si rassegnano a credere che vada bene così perché è così che fanno tutti e che non ci siano vie d’uscita.

Dipendenti rassegnati, persone che non ascoltano la propria indole, che scelgono di far parte di un meccanismo sociale già scritto, che rinunciano a dare alla propria natura una possibilità di esprimersi.

Tutto questo in nome di che cosa? Che cos’è così importante da indurre la maggior parte dei dipendenti a sacrificarsi per tutta la vita? L’unica certezza (ormai vacillante) è lo stipendio a fine mese. Tutto per questa misera ed unica certezza.

La totale rinuncia alle proprie aspirazioni e la negazione di se stessi per avere in cambio la garanzia del tozzo di pane a fine mese!

Non rappresenta questa una negazione delle proprie capacità? Non è forse l’ammissione d’essere incapaci di camminare da soli e quindi inadeguati? 

Dimettersi

Il dipendente – frustrato e consapevole di trovarsi in queste condizioni di “rinuncia di sé” – pensa vagamente alla possibilità di dimettersi, guarda alle mille possibilità di un mondo che si apre davanti ai suoi occhi e prova una vertigine spaventosa, un brivido di paura, se non di panico.
È come trovarsi di fronte al baratro.
Ma come, rimuginate tutto il giorno perché non vi sentite apprezzati né valorizzati secondo le vostre reali capacità, e di fronte all'idea di avere una porta spalancata verso il mondo, preferite di gran lunga restare impantanati nel solito impiego da dipendente!
E tutto in nome della “sicurezza”! Tutto per quella vocina che vi sussurra dentro:

  • “Pensa alla sicurezza… la sicurezza…”
  • “Studia seriamente, poi trovati un posto fisso, così avrai la sicurezza…”
  • “Non andare in giro a divertirti, prima pensa a sistemarti…”
  • "Se resisti per quarant'anni poi un giorno avrai la pensione..."
  • “C’è la crisi, tieniti stretto il posto di lavoro che non si mai…”
  • “Se non hai un posto fisso la banca non ti dà il mutuo…”
  • “La sicurezza… la sicurezza…”

La dura verità

È questa è la situazione, vero? Un brivido lungo la schiena.

Quanti dipendenti si sono identificati in questo stato d’animo? Perdere il lavoro rappresenta il baratro, il punto oltre il quale non c’è ritorno e dove iniziano cose terribili, da evitare assolutamente. 

 

Perdere il lavoro rappresenta la vostra reale insicurezza, la vostra paura più grande, la vostra convinzione di non essere capaci di fare, di organizzare, di essere autosufficienti, di procurarvi da soli di che vivere.

Avete bisogno di un’azienda-mamma che vi dia sostentamento, che vi procuri da vivere in cambio della vostra abnegazione


  

Avete bisogno di un’azienda-chioccia che vi dica cosa fare ogni giorno, che vi organizzi anche i periodi di ferie, che vi dia uno stipendio quando siete in malattia, che pensi anche alla vostra pausa pranzo con dei buoni-pasto, che si preoccupi perfino della vostra pensione quando sarete anziani!

Ma come, al lavoro le cose le sapete fare bene, perché dovrebbe essere diverso fuori dall’azienda? Anche fuori dovreste essere capaci di fare le cose bene!

Anzi, senza tanti impedimenti e lungaggini, dovreste riuscire a lavorare anche meglio!

Quando accennate, in famiglia o con amici, alla possibilità di lasciare il lavoro, chissà perché tutti vi guardano male come se aveste bestemmiato, e naturalmente cercano di dissuadervi.

Il pensiero negativo è il primo che viene in mente subito a tutti.

Ma avete detto una cosa così stana? Non dovrebbero, invece, essere proprio loro, i vostri famigliari, a sostenervi e incoraggiarvi; loro che vi amano e vi conoscono meglio di tutti; che ascoltano quotidianamente le vostre lamentele e frustrazioni?

Non dovrebbero desiderare di vedervi finalmente sereni e realizzati, impegnati in un lavoro di soddisfazione, liberi di impegnarvi per voi stessi, non per altri? 

 

“Ricordati che hai famiglia!” 

come se avere famiglia fosse un buon motivo per vivere male.

  

Invece, è giusto e accettato socialmente tornare a casa tutte le sere frustrati e depressi, magari sfogarsi con il coniuge e dare ai vostri figli un’immagine perdente di voi stessi.

Con quali aspettative i vostri figli potranno affacciarsi al mondo del lavoro se vi vedono ogni giorno in questo stato?

Chissà perché tutti ricordano benissimo – e raccontano con dovizia di particolari tragici e tinte fosche – mille storie tristi di chi ha lasciato il posto di lavoro senza grandi risultati.

Possibile che sia andata male proprio a tutti?

Nessuno ricorda, invece, coloro che hanno lasciato il lavoro e avuto successo, magari non sono diventati ricchi ma ora sono sereni, lavorano per se stessi e con soddisfazione.

La “ricchezza” non è solo quella monetaria, si è ricchi anche di salute, di benessere, di soddisfazioni, di tempo!

 

"Se progetti deliberatamente di essere meno di ciò che sei capace di essere, allora ti avviso che sarai infelice per il resto della tua vita."

(Abraham Maslow)